I social media, tanto amati e tanto odiati.
Ci offrono tante possibilità diverse. Possiamo ricercare informazioni e scambiarle con gli altri, a volte ci aiutano anche nel trovare soluzioni a nostri problemi. Ci hanno salvato nel pieno periodo di lockdown da Covid-19 (e ancora ora lo fanno) permettendoci di lavorare a distanza o facendoci svagare dopo una giornata intensa. Aiutano nel sostenere le relazioni eliminando la distanza fisica e facilitano altresì le attività in comune. Parallelamente però, la comparsa passiva di informazioni, il nostro uso passivo dei social, aumenta l’ansia e la depressione, confermando i propri bias e focalizzando l’attenzione per l’appunto su un solo punto di vista. Questa modalità può anche distrarre dal fare altre attività piacevoli e/o importanti. Scorriamo velocemente tra le pagine, non prestando reale attenzione ai contenuti ma facendoci cogliere solamente dall’impatto visivo e emotivo.
Possono avere un grande impatto per chi ha un disturbo alimentare, o anche nella fase embrionale, nella definizione e creazione di questo.
I social media sono molto utili per campagne di comunicazione e marketing. Usano immagini potenti a livello visivo per attrarre potenziali clienti. Vediamo modelle senza difetti, ma ci dimentichiamo che sono immagini finte, costruite tramite un gioco sapiente di luci, pose e programmi di editing. La perfezione non esiste, e lo standard di bellezza che spesso passa (fortunatamente molti brand stanno iniziando a comunicare utilizzando modelle di diverse taglie e particolarità) è irrealistico. Se lo prendiamo come modello di vita, sicuramente rimarremo sempre insoddisfatte. Tutto ciò ovviamente incoraggia a concentrarsi sul proprio aspetto fisico e a giudicarsi rispetto a questo e parallelamente rafforza e amplifica la propria insoddisfazione corporea. A questo si associano i comportamenti di bullismo, di body shaming che popolano il web. Attacchi sulla forma fisica, che colludono con la fittizia idea di perfezione corporea. “Se non sono magra e perfetta non valgo, sono inadeguata”. Vengono operati confronti sociali e autovalutazioni in cui si esce sempre perdenti. Si provano diverse emozioni: vergogna, colpa, tristezza.
Aggiungiamoci le challenge, sfide digitali che aumentano la sensazione di sentirsi sbagliati se non si riescono a fare. Oltre al tentativo di raggiungere la notorietà e la fatica, l’ansia di prestazione, lo stress da ipercontrollo su ciò che si fa. È faticoso essere sempre connessi e perfetti. Aumenta così il rimuginio e la ruminazione. Andiamo a caccia di like, commenti, follow, che diventano marker del proprio valore e definiscono la propria autostima. La prossima immagine che posto deve essere perfetta, ci devo porre più attenzione, devo essere perfetta. Ecco un circolo vizioso rispetto ai feedback, una eterna caccia all’approvazione.
Gli # stimolano l’attenzione verso l’oggetto. Ci aiutano a ritrovare post legati ai nostri interessi. Fin troppo. Come anticipato colludono con i nostri bias. Cerchiamo post su come avere un’alimentazione sana e/o aggiungere alla propria routine giornaliera un po’ di attività fisica? Siamo bombardati da post su questi. E a volte, il passo tra uno stile di vita sano e un comportamento disfunzionale è breve.
I meme: immagini costruite per circolare velocemente utilizzando il canale dell’ironia, della goliardia, in modo a volte inconsapevole possono amplificare le difficoltà già esistenti. Chi non ha visto durante il lockdown battute sul fatto che non saremmo più riusciti ad uscire dalla porta dato l’aumento del peso? Ad alcune persone questo può sicuramente far ridere, ma se il corpo per me è un tasto dolente, questa immagine mi fa male, e magari, ho anche difficoltà a cercare il supporto degli amici o devo nascondere l’imbarazzo quando circola questa immagine.
L’ho detto all’inizio, lo ripeto qui. I social media aiutano nel mantenere le relazioni e condividere informazioni. Ma se quello che cerco è la vicinanza di un’altra persona che ha disturbi alimentari, ecco che invece può esserci la condivisione di pratiche di rafforzamento. Si creano community, gruppi legati alla condivisione di strategie che mantengono il disturbo. I famosi gruppi pro-ana, pro-mia, che si evolvono, cambiano forma, social di riferimento, ma purtroppo non si esauriscono mai.
Cosa si può fare?
Creare anticorpi a questi miti, a questi standard irrealistici, ai meme. Puntare ad una comunicazione di body positive, una comunicazione di accettazione, compassione, empatia, auto accettazione. Una visione più realistica e positiva, che includa la diversità, la particolarità. Anche la condivisione di storie di successo, di chi ne è uscito da questi disturbi può aiutare.
Sviluppare la metacognizione:
Mi fermo un attimo a riflettere sui miei stati mentali, li osservo, li etichetto. Mi chiedo: cosa mi attivano? Cosa sto provando? Quale stimolo in particolare mi sta suscitando qualcosa? Come mai mi sento attivata? Così posso filtrare gli stimoli e distanziarmi emotivamente. Posso anche chiedermi: Sono fattori che mantengono il mio disturbo? Quali altre strategie posso mettere in atto? C’è chi ad esempio, sapendo che determinate pagine su instagram o personaggi possono contribuire allo sviluppo di ruminazioni ansione o rimuginii depressivi, fa un’operazione di decluttering, toglie il like alla pagina.
Un ultimo consiglio è di impostare una routine giornaliera rispetto all’uso dei social, meglio evitarli vicino o duranti i pasti.
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